tramonto

domenica 18 agosto 2013

PASSO FORCA

Morzanch, Zergnei, San Vetor Veses... chissà da quale antro della storia uscirono questi nomi! Passo oltre verso un luogo da parcheggiare per salire al Pas
so Forca a debita distanza dal più alto in grado da queste parti: il Pizzocco. Salgo per un vecchio tracciato fatto da mani d'uomo, dove i vecchi muretti di cinta si sfaldano, i rovi boriosi fanno giungla e le acque quando scendono scriteriate rimescolano il terreno. Più su si unisce ad un nuovo sterrato, che si fa più largo, dritto, svelto, fatta da puzzolenti bulldozer. Lavori fatti i primi da anni di zappa, di fatiche, l'altro dal tempo voluto dall'appalto. Una moderna croce di greche e latta riflette il sole mandandolo lontano. La chiesa di San Felice adagiata su uno strapiombo nel vuoto, fa da confine tra la bassa montagna e l'Alpe. C'è ancora fra i nuovi intonaci un dipinto di cavalieri medioevali che ricordano il Pisocco da Paterno, che da questi luoghi partì alla crociata in terra santa a combattere l'infedele. E ci addentriamo verso Val Scura, oggi chiara anch'essa in questa luminosità. Sotto a fondovalle, la riga bianca del Veses. In alto nitida in ombra protetta dalle rocce l'ampia sella della meta, sotto il solco precipite da risalire. Incrocio per un attimo una persona che dall'aspetto corre verso l'età attempata, ma oggi questo sentiero lo percorre lieve...Grande!! Da qui il tracciato dimentica il trasbordo quasi piano dalla chiesetta e sale ripido. Ripido da immaginare il sudore, a voi che leggete, che dalla fronte scende rigando il volto... ecco avete fatto un'istantanea della fatica... Ovunque le radici degli alberi si mostrano come nervi scoperti a rendere pubblico i loro umori. Avanti in fitto bosco ceduo, e di tanto in tanto qualche piantumazione forestale di peccio. Poi si libera d'essi e svela la maestosità del Pizzocco e delle cime di Valscura, e delle incombenti creste del Pievidur, nella lattiginosità mattutina. Il sentiero risale fra roccette inerbate, ed ogni tanto si espone in cenge vertiginose. Anche le acque precipitano in un grande salto fino a sfracellarsi in un basso catino, forse distratte dall' estasi del luogo.Continua la salita in salti di roccia, ghiaini, erbe taglienti; e per dirla in gergo ciclistico, in questo andare sono rasoiate che riempiono le gambe di acido lattico. Poi si scende in un bianchissimo impluvio. In un'altra escursione in tarda primavera lo avevo superato intrufolandomi nelle fauci di una slavina. Alzo gli occhi su un ennesimo salto di roccia, sopra una bastionata grigia e nessun segno di proseguio. Mi siedo su uno spuntone belvedere e placo l'arsura dei riverberi solivi di terra d'Africa, bevendo copiosamente da una gialla borraccia. Poi ad ogni curva nuovi scenari, l'immensità di pareti mastodontiche, ridda di guglie che s'inerpicano in cieli blu lapislazzuli. profumi di mughi ed odori di selvatico. Vorticosi canaloni, penombre in antri , piani inclinati d'un verde smeraldo, in alto aggetti cucce per falchi. Prima di inchinarmi al cospetto dei pilastri di Valscura, risalgo ripidi declivi aggrappandomi impunemente a rami di mugo ed a resistenti erbe: Poi sono spazi aperti verso l'agognato Passo. Lo supero, guardo oltre. Lontani i chiari atolli di Cimonega, i verdi scuri del Colsento, le rugosità di Cimia. Penso a proseguire, ma sarebbe un'altra storia, anzi sempre la stessa storia, dato che lo scorso anno sono stato diverse volte da queste parti. Mi fermo ascolto un silenzio che non sa di silenzi. Si riempie di note, il brusio d'insetti, i soffi del vento, il rumore d'un aereo in volo, il fischio d'un camoscio. E nulla è fermo, la brezza muove i rami d'un isolato larice, piega gli steli d'erba, un sasso rotola, rade nuvole scorrono in alto, il volo di un'aquila. Poi guardo in basso i costoni dei versanti dei monti si perdono nei colori delle brume. Un triangolo degli stessi ci mostra uno spicchio di Valbelluna. Poi per chi ama le discese non basta che..spiccare il volo!

martedì 13 agosto 2013

MONSAMPIANO

Risalgo il vallone per secoli via verso i piani alti da parte dei valligiani di Aune, ora pressochè  dimenticato, diventato terreno per temerari. Oggi una strada, deriva cementizia, entra ripida salendo in profondità tra le mattinate ombrose d'Orza e le albe solatie di Le Val. Fino a quando compaiono vecchi muretti a secco, anch'essi addentratisi nella caducità dell'esistenza, rimandano alla memoria chiusure di campivoli contro le intemperanti invasioni d'armenti. In avanti il sentiero sale stanchissimo, così ripido in pendenze proibitive da dissanguarti, camminando in una rilassante faggeta, da farne da contrappeso. Poi si libera mostrandoti imponenti troni di pietra grigia su sfondo blu cielo. Si scivola su ghiaione che canta. Alzi lo sguardo e pareti rocciose sbarrano la via in alto come diga insuperabile. Il verde, non più toccato da tempo da mano d'uomo, s'impossessa dei luoghi; cala un telo monocromo sui declivi, tanto da aggredire le balze prendendole per sfinimento come negli assedi medioevali. Il sole fa le bizze, entra ed esce fra le nuvole e le rocce. Intanto il sentiero, sempre più esile si contorce, s'insinua in meandri, si fa scala, raminga senza meta apparente. Mostra una veduta su Aune...penso a quel terribile agosto del '44 quando da quassù partigiani e gente fuggente del luogo, videro alzarsi lingue fuoco, rosse alte in cielo, fiutare l'acre odore del fumo. Le case bruciate dal rancore del nazifascista; belva ferita. Oggi c'è profumo di fiori che crescono in quantità industriale. C'è una baraonda di piante, di alte erbe di spuntoni litei, di ripidissimi canaloni, dove il botanico Zannicchelli nel '700 descrisse di orridi, nebbie fitte e temporali perturbanti dalle valli tedesche, di riposanti aie prative. Poi tutto si apre alla vista al Passo di Sant'Antonio. Da qui si risale lo Scalon per ripido intaglio munito di corde sul filo dello strapiombo...in terribil loco direbbe il nostro!. Poi di colpo ampi prati d'alpeggio e le tensioni di poco prima sono subito sopite, battuti da fresca brezza. E tracce, misere, fino a incontrare un sentiero, misero anch'esso, quasi mai calpestato dai GPS odierni. Su un mare di fiori gialli in Monsampiano. Un pastore all'uscio della casera. Saluto, imbocco la pendana, escono d'improvviso una moltitudine di cani neri, come l'inferno, strattonano le catene, s'aizzano, sembrano sbranarmi; Salto indietro e mi dileguo al loro latrare e via di corsa lungo la mulattiera quasi piana. E poi è Busa di Cavaren, di Caneva; fiori di ogni tipo da fotografare, da annusare. Cammino e corro...cammino e corro. Ho anche un piccolo tifoso, appoggiato alla vasca d'acqua sotto il ghiaione del Pavione, mi incita op...op..!!! Corro ancora mentre il vento fa il suo giro, porta ormai correnti fresche dimentico delle caldane del deserto di qualche giorno appresso. In alto vedo sulle creste piccole figure che si incontrano, che vanno e vengono verso l'alte cime. Si scambiano parole che l'aria mi porta giù. Passano e vanno, si perdono. Tra i calcari un gregge. Sono ritornate le pecore nel parco a dispetto di quegli ambientalisti che le volevano bandite, ma fa struggente paesaggio virgiliano. Un'ultima corsa e sono al Dal Piaz. Tanta gente. Poi una volata in valle e in casera dagli amici con una fame "esagerata". Soddisfatta!!!

giovedì 27 giugno 2013

DA 0 A 2000

Anzi da 274 a 2367 metri per la precisione fin su a Cima Dodici. Sono le cinque e mezzo quando m'invio ed il giorno è già fatto da un pezzo. Ogni sorta di volatile è da un bel po' che si prodiga in tenzoni canore. E già la caldera estiva, sbocciata all'improvviso dopo che il meteo ci ha ammuffito di infinite piogge primaverili e relegati tutti nei tepori domiciliari, si è ripresa la scena. Non è una giornata spettacolare quella che ci attende. Nuvole nere stazionano leziose ai bordi della volta ed i monti sono ingrigiti dalle foschie stantie. Vignui dorme ancora quando passo, mi accoglie il guaito d'un cane ed all'uscita l'abbaio scontroso d'un altro. I tigli liberano fragranze e lontano all'imbocco della valle mi saluta il raglio d'un asino. Entrato nella penombra della valle libero i garretti indolenziti da tanto asfalto, in una breve corsa. Il sole intanto si intrufola tra le fronde a rosare il sottobosco, mentre il fresco ristagna, quasi fosse ultimo rifugio per le correnti residue invernali. Salgo al Pian dei Violini, tra giochi d'acqua rumorosi, concentrato nell'andare. In breve all'interno dell'abetaia silente, in cui aleggiano sentori da saga nordica, il fragore dell'acqua si fa appena percepito, ovattato, viene sostituito da quello delle foglie calpestate. Intanto il tracciato si fa erto in una fittissima vegetazione e quando si sposta dà vista ad un'apoteosi di rupi, pareti fratturate, guglie, aggredite da tenaci mughete ed ostinate aie verdeggianti. L'opacità lattiginosa della luce in valle frantuma la sensibilità dei particolari. Il sentiero sembra non mollare mai, poi allo Scalon di Pietena, sotto le possenti rupi calcaree, anch'esso va in affanno. Suda, sbuffa, ansima, prosegue zigazzando, curva, si agita su pendenze rilevanti. Poi più in su il bosco si dipana e dà spazio a radure sempre più ampie. I prati si colorano di genziane blu cobalto, di ranuncoli tinti di bianco vergineo, arniche che rubano giallo al sole. Colonne di formiche in parata e flotte di insetti sostano su purpuree eriche. Intanto la Rocchetta e le cime d'intorno si intristiscono nel giogo carceriere delle nebbie d'alta quota. Poi dietro il costone appare Malga Pietenetta, le cui rovine s'ingentiliscono nei gialli delle fioriture. Gli alpeggi invece si interrogano ancora circa l'arrivo della primavera. In Pietena spirano correnti ancora intrisi d'inverno e nei restanti accumuli di neve è tempo di crochi e soldanelle. Sembrano salutare i viandanti i miseri resti di quella che un tempo fu dimora d'armenti e bovari. Fatico ad arrivare al Passo, sento l'ansietà dell'aria rarefatta. Raccolgo forze sopite e navigo a vista nel risalire i pendii ghiaiati: Mi fermo, riparto, sosto. Rifiato. Arrivo in cima e mi rilasso in panorami liberati. Giunge anche un altro escursionista fra l'intrico di questa montagna in sfacelo, che lentamente il tempo impietoso la distrugge regalando però un dedalo di scrigni preziosi. Un insieme di conche, ghiaioni, forre, aeree creste, rupi in bilico che si sgretolano al primo contatto, magico. Sembra scusarsi, l' intruso, dell'aver disturbato il mio attimo di quiete... Ridiscendiamo assieme, poi alla base ci separiamo, io proseguo oltre busa delle Vette fino al Rifugio dal Piaz, fra lingue di neve che non demordono. Una breve sosta ed -Alè!!- giù lungo le discese dello scalon delle Vette e poi ancora  il Pian dei Violini, i fragori dello Stien, i cani di Vignui, che nel frattempo s'è svegliato, ed ancora asfalto.

sabato 15 giugno 2013

FORCELLA DELL'OMO

Chissà cosa avrebbe pensato un valligiano, valicando la forcella, nell'incappare  uno sconosciuto armeggiante alla base del monolite che visto da Sagron serba fattezze d'uomo, tanto che il buon Dio ne abbia preso ad immagine e somiglianza? Con probabilità avrebbe bofonchiato un qualche tipo di saluto per proseguire oltre, salvo  fermarsi dopo un po' a controllare che non fosse un' allucinazione dovuta all'altitudine. Ma eccola qua! Decenni dopo, materializzarsi quella strana figura intenta a lavorare di cemento e cazzuola. Con berretto e flanella, abbigliamento più da green di Ascot che da tenuta dolomitica. Ha l'intento caparbio di far riemergere dalle brume del passato il legame tra queste comunità contermini. Paradosso dei tempi più invalicabile oggi che si arriva sulla luna,che nei tempi andati con cui l'unico mezzo di spostamento erano i piedi. Arrivano in tanti a presenziare all'evento. Chi montando dai piani eterni si affaccia alla forcella che sta più in alto ad oriente, che nel corso degli ultimi anni s'è abusivamente arrogata del toponimo, sottraendola alla legittima proprietaria; chi invece, più audace superando le ardite cenge delle aeree bancate dello Slavinaz. I celebranti la liturgia invece in mesta lenta processione salgono le erte della Valle delle Moneghe. Poi quando i convenuti si sono appollaiati sull'esile declivio, si dà principio all'evento. Con retorica istituzionale e  frasi fatte alla bisogna, si sancisce la rinnovata amicizia delle comunità della valle del Mis e di quella del feltrino. Medesimo destino un tempo fatto di fatiche, di vita grama, di silenzi, ma anche di realtà semplice, aulica. Qui era luogo d'incontro e di scambio fra le due diverse realtà. Oltrepassare questa linea era motivo di speranza, era ricerca di un domani che si liberasse dalle miserie. Passaggio di contrabbandieri, briganti, cacciatori, trasbordo o diga alle pestilenze. Oggi comandato dallo squillo di un cellulare sale il suono delle campane, lieve come una melodia uscita dal passato. Salgo rapidamente alla forcella superiore, da dove guardo i convenuti che pigramente lasciano il piccolo declivio, più trespolo per rapaci che sito da happening. Un lungo cordone in fila indiana nella linea d'ombra quasi a ridosso delle bancate rocciose, risale. Passano penne d'alpini, magliette variopinte, cani che s'annusano, giovani e baldi canuti; sudori e sguardi sublimati nello spaziare i panorami d'intorno. Fatti di cenge che tolgono il fiato, pareti diritte che s'inabissano in luoghi celati alla vista, praterie verdi d'alta quota, il grigio pallido delle rocce, nubi in cielo che ostentano il loro passaggio su campi blu. Ci si sposta in seguito, come branco di ungulati al di là di quelle verdi creste per ritrovarsi al campivolo di Erera. Qui seduti, sdraiati sul verde manto d'erba, uniti nel rincorrersi di  melodie irlandesi  e racconti di storia e storie, ci si sente uno nessuno e centomila.
Poi la via del ritorno, guardarla in controluce quale spettro del meriggio...che tarda e lascia un vuoto di silenzio....e tutto tace.