tramonto

sabato 15 giugno 2013

FORCELLA DELL'OMO

Chissà cosa avrebbe pensato un valligiano, valicando la forcella, nell'incappare  uno sconosciuto armeggiante alla base del monolite che visto da Sagron serba fattezze d'uomo, tanto che il buon Dio ne abbia preso ad immagine e somiglianza? Con probabilità avrebbe bofonchiato un qualche tipo di saluto per proseguire oltre, salvo  fermarsi dopo un po' a controllare che non fosse un' allucinazione dovuta all'altitudine. Ma eccola qua! Decenni dopo, materializzarsi quella strana figura intenta a lavorare di cemento e cazzuola. Con berretto e flanella, abbigliamento più da green di Ascot che da tenuta dolomitica. Ha l'intento caparbio di far riemergere dalle brume del passato il legame tra queste comunità contermini. Paradosso dei tempi più invalicabile oggi che si arriva sulla luna,che nei tempi andati con cui l'unico mezzo di spostamento erano i piedi. Arrivano in tanti a presenziare all'evento. Chi montando dai piani eterni si affaccia alla forcella che sta più in alto ad oriente, che nel corso degli ultimi anni s'è abusivamente arrogata del toponimo, sottraendola alla legittima proprietaria; chi invece, più audace superando le ardite cenge delle aeree bancate dello Slavinaz. I celebranti la liturgia invece in mesta lenta processione salgono le erte della Valle delle Moneghe. Poi quando i convenuti si sono appollaiati sull'esile declivio, si dà principio all'evento. Con retorica istituzionale e  frasi fatte alla bisogna, si sancisce la rinnovata amicizia delle comunità della valle del Mis e di quella del feltrino. Medesimo destino un tempo fatto di fatiche, di vita grama, di silenzi, ma anche di realtà semplice, aulica. Qui era luogo d'incontro e di scambio fra le due diverse realtà. Oltrepassare questa linea era motivo di speranza, era ricerca di un domani che si liberasse dalle miserie. Passaggio di contrabbandieri, briganti, cacciatori, trasbordo o diga alle pestilenze. Oggi comandato dallo squillo di un cellulare sale il suono delle campane, lieve come una melodia uscita dal passato. Salgo rapidamente alla forcella superiore, da dove guardo i convenuti che pigramente lasciano il piccolo declivio, più trespolo per rapaci che sito da happening. Un lungo cordone in fila indiana nella linea d'ombra quasi a ridosso delle bancate rocciose, risale. Passano penne d'alpini, magliette variopinte, cani che s'annusano, giovani e baldi canuti; sudori e sguardi sublimati nello spaziare i panorami d'intorno. Fatti di cenge che tolgono il fiato, pareti diritte che s'inabissano in luoghi celati alla vista, praterie verdi d'alta quota, il grigio pallido delle rocce, nubi in cielo che ostentano il loro passaggio su campi blu. Ci si sposta in seguito, come branco di ungulati al di là di quelle verdi creste per ritrovarsi al campivolo di Erera. Qui seduti, sdraiati sul verde manto d'erba, uniti nel rincorrersi di  melodie irlandesi  e racconti di storia e storie, ci si sente uno nessuno e centomila.
Poi la via del ritorno, guardarla in controluce quale spettro del meriggio...che tarda e lascia un vuoto di silenzio....e tutto tace.

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