tramonto

giovedì 27 giugno 2013

DA 0 A 2000

Anzi da 274 a 2367 metri per la precisione fin su a Cima Dodici. Sono le cinque e mezzo quando m'invio ed il giorno è già fatto da un pezzo. Ogni sorta di volatile è da un bel po' che si prodiga in tenzoni canore. E già la caldera estiva, sbocciata all'improvviso dopo che il meteo ci ha ammuffito di infinite piogge primaverili e relegati tutti nei tepori domiciliari, si è ripresa la scena. Non è una giornata spettacolare quella che ci attende. Nuvole nere stazionano leziose ai bordi della volta ed i monti sono ingrigiti dalle foschie stantie. Vignui dorme ancora quando passo, mi accoglie il guaito d'un cane ed all'uscita l'abbaio scontroso d'un altro. I tigli liberano fragranze e lontano all'imbocco della valle mi saluta il raglio d'un asino. Entrato nella penombra della valle libero i garretti indolenziti da tanto asfalto, in una breve corsa. Il sole intanto si intrufola tra le fronde a rosare il sottobosco, mentre il fresco ristagna, quasi fosse ultimo rifugio per le correnti residue invernali. Salgo al Pian dei Violini, tra giochi d'acqua rumorosi, concentrato nell'andare. In breve all'interno dell'abetaia silente, in cui aleggiano sentori da saga nordica, il fragore dell'acqua si fa appena percepito, ovattato, viene sostituito da quello delle foglie calpestate. Intanto il tracciato si fa erto in una fittissima vegetazione e quando si sposta dà vista ad un'apoteosi di rupi, pareti fratturate, guglie, aggredite da tenaci mughete ed ostinate aie verdeggianti. L'opacità lattiginosa della luce in valle frantuma la sensibilità dei particolari. Il sentiero sembra non mollare mai, poi allo Scalon di Pietena, sotto le possenti rupi calcaree, anch'esso va in affanno. Suda, sbuffa, ansima, prosegue zigazzando, curva, si agita su pendenze rilevanti. Poi più in su il bosco si dipana e dà spazio a radure sempre più ampie. I prati si colorano di genziane blu cobalto, di ranuncoli tinti di bianco vergineo, arniche che rubano giallo al sole. Colonne di formiche in parata e flotte di insetti sostano su purpuree eriche. Intanto la Rocchetta e le cime d'intorno si intristiscono nel giogo carceriere delle nebbie d'alta quota. Poi dietro il costone appare Malga Pietenetta, le cui rovine s'ingentiliscono nei gialli delle fioriture. Gli alpeggi invece si interrogano ancora circa l'arrivo della primavera. In Pietena spirano correnti ancora intrisi d'inverno e nei restanti accumuli di neve è tempo di crochi e soldanelle. Sembrano salutare i viandanti i miseri resti di quella che un tempo fu dimora d'armenti e bovari. Fatico ad arrivare al Passo, sento l'ansietà dell'aria rarefatta. Raccolgo forze sopite e navigo a vista nel risalire i pendii ghiaiati: Mi fermo, riparto, sosto. Rifiato. Arrivo in cima e mi rilasso in panorami liberati. Giunge anche un altro escursionista fra l'intrico di questa montagna in sfacelo, che lentamente il tempo impietoso la distrugge regalando però un dedalo di scrigni preziosi. Un insieme di conche, ghiaioni, forre, aeree creste, rupi in bilico che si sgretolano al primo contatto, magico. Sembra scusarsi, l' intruso, dell'aver disturbato il mio attimo di quiete... Ridiscendiamo assieme, poi alla base ci separiamo, io proseguo oltre busa delle Vette fino al Rifugio dal Piaz, fra lingue di neve che non demordono. Una breve sosta ed -Alè!!- giù lungo le discese dello scalon delle Vette e poi ancora  il Pian dei Violini, i fragori dello Stien, i cani di Vignui, che nel frattempo s'è svegliato, ed ancora asfalto.

sabato 15 giugno 2013

FORCELLA DELL'OMO

Chissà cosa avrebbe pensato un valligiano, valicando la forcella, nell'incappare  uno sconosciuto armeggiante alla base del monolite che visto da Sagron serba fattezze d'uomo, tanto che il buon Dio ne abbia preso ad immagine e somiglianza? Con probabilità avrebbe bofonchiato un qualche tipo di saluto per proseguire oltre, salvo  fermarsi dopo un po' a controllare che non fosse un' allucinazione dovuta all'altitudine. Ma eccola qua! Decenni dopo, materializzarsi quella strana figura intenta a lavorare di cemento e cazzuola. Con berretto e flanella, abbigliamento più da green di Ascot che da tenuta dolomitica. Ha l'intento caparbio di far riemergere dalle brume del passato il legame tra queste comunità contermini. Paradosso dei tempi più invalicabile oggi che si arriva sulla luna,che nei tempi andati con cui l'unico mezzo di spostamento erano i piedi. Arrivano in tanti a presenziare all'evento. Chi montando dai piani eterni si affaccia alla forcella che sta più in alto ad oriente, che nel corso degli ultimi anni s'è abusivamente arrogata del toponimo, sottraendola alla legittima proprietaria; chi invece, più audace superando le ardite cenge delle aeree bancate dello Slavinaz. I celebranti la liturgia invece in mesta lenta processione salgono le erte della Valle delle Moneghe. Poi quando i convenuti si sono appollaiati sull'esile declivio, si dà principio all'evento. Con retorica istituzionale e  frasi fatte alla bisogna, si sancisce la rinnovata amicizia delle comunità della valle del Mis e di quella del feltrino. Medesimo destino un tempo fatto di fatiche, di vita grama, di silenzi, ma anche di realtà semplice, aulica. Qui era luogo d'incontro e di scambio fra le due diverse realtà. Oltrepassare questa linea era motivo di speranza, era ricerca di un domani che si liberasse dalle miserie. Passaggio di contrabbandieri, briganti, cacciatori, trasbordo o diga alle pestilenze. Oggi comandato dallo squillo di un cellulare sale il suono delle campane, lieve come una melodia uscita dal passato. Salgo rapidamente alla forcella superiore, da dove guardo i convenuti che pigramente lasciano il piccolo declivio, più trespolo per rapaci che sito da happening. Un lungo cordone in fila indiana nella linea d'ombra quasi a ridosso delle bancate rocciose, risale. Passano penne d'alpini, magliette variopinte, cani che s'annusano, giovani e baldi canuti; sudori e sguardi sublimati nello spaziare i panorami d'intorno. Fatti di cenge che tolgono il fiato, pareti diritte che s'inabissano in luoghi celati alla vista, praterie verdi d'alta quota, il grigio pallido delle rocce, nubi in cielo che ostentano il loro passaggio su campi blu. Ci si sposta in seguito, come branco di ungulati al di là di quelle verdi creste per ritrovarsi al campivolo di Erera. Qui seduti, sdraiati sul verde manto d'erba, uniti nel rincorrersi di  melodie irlandesi  e racconti di storia e storie, ci si sente uno nessuno e centomila.
Poi la via del ritorno, guardarla in controluce quale spettro del meriggio...che tarda e lascia un vuoto di silenzio....e tutto tace.