tramonto

giovedì 16 aprile 2015

ESPLORATORI

E venne l'apocalisse ai primi di novembre del '66, fatta di pioggia, neve ed insolito caldo. La Gosalda piombò con un diluvio d' acqua e la Pezea catalizzò tutti i liquidi di mezzogiorno. Coalizzandosi nel piano tutto travolsero e la sottostante valle mai più fu la stessa. Dentro nel profondo, fango e pietre a metri ridussero in macerie mute l'armonia di California. Eravamo qui, una decina d'anni dopo, imberbi adolescenti, Edoardo ed io, con lo sguardo rivolto verso le crespe luccicanti del lago del Mis, lunga scia d'acqua ferma. Vicini alla famosa cascata della Soffia, cui un cartello ne decantava bellezze turistiche. La chiesetta e l'alberghetto, ologrammi posticci, erano riproposizioni di quelli che trovavano in altri luoghi ora sommersi dal bacino. Due grossi zaini in ispalla, ricolmi di cibo, di vestiario e una tenda nuova da corrispondenza, pervenuto dal catalogo Postal Market. C' incamminammo disinvolti verso il budello cintato da enormi pareti rocciose, su quello che rimase della strada. Poco oltre scomparve di netto, lasciando un misero sentiero divincolarsi su un pendio ghiaioso che scendeva rapido fin sul corso del torrente, il quale scendeva chiacchierando allegro. Tutto sembrava essere ritornato a prima che l'uomo avesse messo mano con pale e picconi e scoppi di dinamite per tracciare la via. Rimanevano soltanto i tratti e le gallerie, troppo in alto e robuste per essere spazzate. Ora rimanevano in attesa che i posteri prossimi decidessero di rimettere le comunicazioni in sesto. Ma ormai gli abitanti, dopo questo ennesimo sconvolgimento, se ne stavano andando in lidi più tranquilli. E la nuova strada a chi sarebbe occorsa? Agli indigeni o valvola di sfogo per le lunghe code dei turisti che veloci tornavano dalle destinazioni dolomitiche? A noi non interessavano tali questioni. Ci immergevamo alla scoperta di questo spazio al pari del Bottego che risalì l' Omo negli inesplorati suoli etiopi. Risalendo vedemmo un paio di coppie di naturisti che nell' altra riva in un angolo schivo abbronzavano le pubenda, ruderi di quello che fu una locanda nota, la Stua, la forra dove nel fondo il Mis mugghiava, e poi, dove gli spazi si allargavano. quell'abitazione che a Titele pareva far da dogana su uno sperone a controllo della valle. Oltrepassammo i flutti su un ponte tavolato sospeso e proseguimmo sul tratturo che portava a California. Essa, prima del disastro, s'era conquistato un "posto al sole" turistico. C'erano due bar, la latteria turnaria, il panificio, ci arrivava giornalmente un torpedone, l'albergo Bissoli con 17 camere per i villeggianti... ed ora la natura stava cominciando a ripristinare le ferite ricoprendo le ghiaie con rada vegetazione. Le abitazioni erano relitti da naufragio, muri sventrati, ferri arrugginiti, divenute dimore per il vento. Bissoli, amico di famiglia, aveva edificato il suo "buen retiro" fra le dolcezze collinari del prosecco, mai dimentico della sua verdeggiante vallata. Noi risalimmo il sentiero verso gli alpeggi di Campotorondo prima e poi alla conca sublime di Erera, terre che furono, quasi per diritto divino, un tempo proprietà del Capitolo della Cattedrale di Feltre e del Monastero di Santa Chiara. L'unico ricordo che ho di questo tratto di tragitto è, chissà per quale motivo, una piccola radura circondata da piante resinose. Su nei cieli dei Piani Eterni, nuvole dai grigi colori si organizzavano per il pernotto, Così anche noi armeggiammo sul "sagrato" della malga all'allestimento della nostra dimora notturna. Non fu facile montare la tenda per noi inesperti. ma alla fine riuscimmo nell'impresa. Non facemmo in tempo ad appisolarci, quando improvviso s'alzò un vento furente, poi tuoni cominciarono a sconquassare i monti, con echi che si rincorrevano. Lampi che illuminavano. Poi pioggia,dapprima leggera, quindi sempre più intensa. Per un po' resistemmo a trattenere a forza di braccia la tenda che le fole volevano strappare, ma quando l'acqua impantanò la base, non ci restò che domandar asilo ai malgari all'interno del rustico. Nottata da tregenda. Il nuovo giorno si svegliò già dimentico del fortunale notturno ed un aura lucente s'appropriò di un cielo blu cobalto. Riassettati i nostri "patrimoni" riprendemmo la via dentro le intriganti mughete alla volta del Passo di Cimia. Vagammo per l'altipiano senza assillo di via certa, ma seguendo tracce e direzioni che l'istinto o l'attimo ci dettavano. Arrivammo poi al valico, al di là baratri e bancate dirute. Non più pianori dolci, ma verticalità frammentate , pareti rocciose a picco, passaggi al limite dell'acrobatico. Dai paradisi danteschi ai gironi infernali. Ma anche all' estasi di quel monte che si spinge imponente, diritto verso l'infinito sdoppiandosi in cima in due torri gemelle. Ed ancora salita, su verso l'ultimo passaggio ed infine esausti giù lungo l'ultima discesa a reincontrare la civiltà.