tramonto

mercoledì 20 maggio 2015

ACQUE

Acqua appena percepita,
stillicidi.
Acqua cheta.
Acqua come un fruscio,
acque che chiacchierano, acque che gorgogliano,
acque che mugghiano,
acque tumultuose.
Acqua del color del cielo.
Acqua smeraldo,
acque bianche, brune di terra.
Acque del color delle fronde,
rosse del tramonto,
dorate dell’alba,
grige di tempesta,
acque trasparenti.
Acque che saltano.
Acque che scivolano, ballano, che si rincorrono,
acque che si spaccano.
Acque che incantano, acque libere.
Acque incanalate,
acque intubate,soggiogate, imprigionate.
Acque ferme.
Acque maleodoranti.
Acque sporche, acque nere.
Acque violentate.

Acque…

giovedì 16 aprile 2015

ESPLORATORI

E venne l'apocalisse ai primi di novembre del '66, fatta di pioggia, neve ed insolito caldo. La Gosalda piombò con un diluvio d' acqua e la Pezea catalizzò tutti i liquidi di mezzogiorno. Coalizzandosi nel piano tutto travolsero e la sottostante valle mai più fu la stessa. Dentro nel profondo, fango e pietre a metri ridussero in macerie mute l'armonia di California. Eravamo qui, una decina d'anni dopo, imberbi adolescenti, Edoardo ed io, con lo sguardo rivolto verso le crespe luccicanti del lago del Mis, lunga scia d'acqua ferma. Vicini alla famosa cascata della Soffia, cui un cartello ne decantava bellezze turistiche. La chiesetta e l'alberghetto, ologrammi posticci, erano riproposizioni di quelli che trovavano in altri luoghi ora sommersi dal bacino. Due grossi zaini in ispalla, ricolmi di cibo, di vestiario e una tenda nuova da corrispondenza, pervenuto dal catalogo Postal Market. C' incamminammo disinvolti verso il budello cintato da enormi pareti rocciose, su quello che rimase della strada. Poco oltre scomparve di netto, lasciando un misero sentiero divincolarsi su un pendio ghiaioso che scendeva rapido fin sul corso del torrente, il quale scendeva chiacchierando allegro. Tutto sembrava essere ritornato a prima che l'uomo avesse messo mano con pale e picconi e scoppi di dinamite per tracciare la via. Rimanevano soltanto i tratti e le gallerie, troppo in alto e robuste per essere spazzate. Ora rimanevano in attesa che i posteri prossimi decidessero di rimettere le comunicazioni in sesto. Ma ormai gli abitanti, dopo questo ennesimo sconvolgimento, se ne stavano andando in lidi più tranquilli. E la nuova strada a chi sarebbe occorsa? Agli indigeni o valvola di sfogo per le lunghe code dei turisti che veloci tornavano dalle destinazioni dolomitiche? A noi non interessavano tali questioni. Ci immergevamo alla scoperta di questo spazio al pari del Bottego che risalì l' Omo negli inesplorati suoli etiopi. Risalendo vedemmo un paio di coppie di naturisti che nell' altra riva in un angolo schivo abbronzavano le pubenda, ruderi di quello che fu una locanda nota, la Stua, la forra dove nel fondo il Mis mugghiava, e poi, dove gli spazi si allargavano. quell'abitazione che a Titele pareva far da dogana su uno sperone a controllo della valle. Oltrepassammo i flutti su un ponte tavolato sospeso e proseguimmo sul tratturo che portava a California. Essa, prima del disastro, s'era conquistato un "posto al sole" turistico. C'erano due bar, la latteria turnaria, il panificio, ci arrivava giornalmente un torpedone, l'albergo Bissoli con 17 camere per i villeggianti... ed ora la natura stava cominciando a ripristinare le ferite ricoprendo le ghiaie con rada vegetazione. Le abitazioni erano relitti da naufragio, muri sventrati, ferri arrugginiti, divenute dimore per il vento. Bissoli, amico di famiglia, aveva edificato il suo "buen retiro" fra le dolcezze collinari del prosecco, mai dimentico della sua verdeggiante vallata. Noi risalimmo il sentiero verso gli alpeggi di Campotorondo prima e poi alla conca sublime di Erera, terre che furono, quasi per diritto divino, un tempo proprietà del Capitolo della Cattedrale di Feltre e del Monastero di Santa Chiara. L'unico ricordo che ho di questo tratto di tragitto è, chissà per quale motivo, una piccola radura circondata da piante resinose. Su nei cieli dei Piani Eterni, nuvole dai grigi colori si organizzavano per il pernotto, Così anche noi armeggiammo sul "sagrato" della malga all'allestimento della nostra dimora notturna. Non fu facile montare la tenda per noi inesperti. ma alla fine riuscimmo nell'impresa. Non facemmo in tempo ad appisolarci, quando improvviso s'alzò un vento furente, poi tuoni cominciarono a sconquassare i monti, con echi che si rincorrevano. Lampi che illuminavano. Poi pioggia,dapprima leggera, quindi sempre più intensa. Per un po' resistemmo a trattenere a forza di braccia la tenda che le fole volevano strappare, ma quando l'acqua impantanò la base, non ci restò che domandar asilo ai malgari all'interno del rustico. Nottata da tregenda. Il nuovo giorno si svegliò già dimentico del fortunale notturno ed un aura lucente s'appropriò di un cielo blu cobalto. Riassettati i nostri "patrimoni" riprendemmo la via dentro le intriganti mughete alla volta del Passo di Cimia. Vagammo per l'altipiano senza assillo di via certa, ma seguendo tracce e direzioni che l'istinto o l'attimo ci dettavano. Arrivammo poi al valico, al di là baratri e bancate dirute. Non più pianori dolci, ma verticalità frammentate , pareti rocciose a picco, passaggi al limite dell'acrobatico. Dai paradisi danteschi ai gironi infernali. Ma anche all' estasi di quel monte che si spinge imponente, diritto verso l'infinito sdoppiandosi in cima in due torri gemelle. Ed ancora salita, su verso l'ultimo passaggio ed infine esausti giù lungo l'ultima discesa a reincontrare la civiltà.

sabato 7 marzo 2015

SALADEN

Saladen!! Chissà per quale alchimia mentale mi viene da accostarlo ad El Alamein. Tutt'altri spazi. Infatti nulla ha in comune col suolo libico, testimone di guerra tra l'Asse e le armate della Regina. Sabbia e panzer. O ad accomunarlo all'Oregon. L'affiorare delll'immagine cinematografica di Zeb Macahan, mano sul culo del cavallo, voltato all'indietro, controllare il seguito per poi alzare il braccio portandolo in avanti gridando - Oregon!! - e partire con la carovana verso una nuova frontiera. Ma quando mi trovo nell'unico posto certo del luogo, Fraina Alta, mi rendo conto che la mia meta è uno sconosciuto limes. Vado ad intuito a cercare l'inizio della via e trovo il mio passaggio a nord-ovest dietro la casera più in alto. I segni sono rievocazioni del passato. Il sentiero sembra più un illusione.Rami, fogliame, arbusti s'impadroniscono del tracciato e si riprendono gli spazi. M'avvio a fiuto, come un cane. Poco oltre la scelta si rivelerà giustificata. Solo pochi segni riveleranno la presenza di passaggio dell'uomo nei tempi passati. L'ambiente è selvaggio. Presso un bivio in bosco di abeti il sentiero si divide, a sinistra salirà in alto verso la forcella dei Gai, per inoltrarsi nelle lande di Ramezza. Proseguendo a destra il pendio si libererà della fitta vegetazione sostituendola in pendio prativo. Ed è subito una sensazione di arcaico quella che avverto. In un prato d'incolta erba bruna dell'autunno le rovine d'una cascina che un tempo fu stalla, un doppio casolare che fu dimora, alti faggi che fanno da custodi e gendarmi, i resti di un' alta pianta crollata dal peso del tempo ora trasformata in un'opera d'arte contemporanea. Il prato rimane memoria delle umane attività. Solitario, abbandonato conduce una lenta e logorante battaglia con il bosco che inesorabile lo aggredisce. Mi aggiro nei dintorni. C'è una presa d'acqua, colonizzata da gracidanti rane. Più in là un poggio belvedere che spazia giù verso la valle, in alto su rupi inacessibili ed ambienti severi e complicati.
Sento che il tempo si dilata, una lieve brezza mi porta inquietudine, eppure questo luogo mi chiede con leggerezza di rimanere.

mercoledì 25 febbraio 2015

VIAZ AL COVOL DEI CAMAI

Sto arrancando in bici sulle rampe dello "Stelvio" di Vignui, quando mi si affianca Francesco che mi invita ad una passeggiata outdoor sui baratri di valle del Santo Martino. Fatta. Appoggiato alla fontana in piazza anche Taibi con il meticcio dal lucido pelo nero: Luna. Cane femmina di poche parole ma da zampe in spalla. Avesse un stelo d'erba in bocca parrebbe un rustego montanaro. Obbiettivo percorrere uno dei viaz che il buon Aldo de Zordi ha inserito in una sua recente guida per sciagurati camminatori da willderness. Unica cosa certa il punto di partenza: l'imbocco di un sentiero all'inizio di Pian dei Violini entro nel profondo della valle. Un tratto ben visibile poi...arrangiarsi. La guida ci aiuterà?! Forse; di tanto in tanto. Troppo complicato il narrarne il costante deflusso, non è ancora materia per navigatori con voce aggraziata femminile a far da timone. Si procede su tracce, erbe, affioramenti e roccette. Cespugli ed arbusteti sono sempre...tra i piedi. Si sale, si devia, ci si ferma, ci si consulta, cerchiamo delle conferme dell'oltre. Ma oltre c'è solo un muro di nebbia che sembra ridersela di noi. Superiamo vallecole, piccole forcelle. Ad un certo punto capiamo di dover andare dall'altra parte di una gola che sprofonda tra abissi e bancate di cui non si vede la fine...ma è tutto ciò che i vapori ci concedono. Finiamo in un canalone dove il proseguire diventa un azzardo, io provo a risalire su una rampata di declivio roccioso ma finisco annegato in una buca di foglie rosse di faggio, Francesco fa da palo per comunicazioni, Taibi cerca lumi sfogliando il manuale. Luna invece è già diretta lungo la dritta via come un esperto conoscitore del luogo. Ma dico abbiamo già la guida...basta seguirla no?! Passiamo ancora a ridosso di superbe pareti rocciose, qualche squarcio nelle nebbie ci rilevano luoghi di cui non riusciamo a focalizzare. Poi d'improvviso tracce di sentiero come dice la descrizione del libro...ben marcata. Forse il termine marcato ha diverse significati... Giungiamo comunque ad un sito conosciuto fra i cacciatori e frequentatori d'un tempo di queste solitarie creste : il Covol dei Camai, antro di sicuro riparo da piogge e nottate buie. Oltre ancora l'ignoto, stavolta tra una giungla di mughi contorti, radici aeree da foresta tropicale, intriganti cespugli da macchia mediterranea, tracce di ungulati che ci inducono a smarrire la via. Eppure riusciamo a riveder... non le stelle, ma una fitta abetaia con fantasmi di rovine d'antica malga. E poi giù a capofitto verso il paese che un raro momento di luce tra le brume ci svela.